Non un semplice forno, ma un vero e proprio progetto di panificazione artigianale: Forno Brisa, giovane realtà bolognese, apre le sue porte e ci fa scoprire il suo mondo.
Per l’occasione incontriamo Pasquale Polito, uno dei due soci fondatori, insieme a Davide Sarti, di Forno Brisa.
Ciao Pasquale, come nasce Forno Brisa?
Forno Brisa è nato dal desiderio di restituire al pane la sua essenza di “prodotto alimentare”, in grado di far bene ai territori e alle persone. Oggi è molto più di un forno: è un progetto dedicato alla panificazione, basato sul modello artigiano e che mira alla conoscenza di tutte le fasi e le facce coinvolte nella filiera, nella capacità di ricondurre ogni gesto produttivo all’intero ciclo del prodotto.
A lavorarci con passione e costanza è un team di 39 ragazzi, con un’età media sotto i 30 anni e con il compito di produrre un pane realizzato con farine non raffinate provenienti in buona parte dai campi abruzzesi di proprietà, e da filiere virtuose.
Perchè “Panificio indipendente e ribelle”? Qual è la mission che vi guida?
Indipendenza e ribellione vanno contro ad un sistema di mercato che schiaccia insensatamente i produttori, e alla definizione di farine non panificabili. Crediamo che un pane nutrizionalmente sostenibile debba seguire dei criteri non più solo meccanicisti e tecnologici.
Oggi, più un grano può sviluppare glutine più ha valore sul mercato, quindi un grano che è potenzialmente più infiammatorio e indigeribile vale di più. I grani che coltiviamo, invece, dovrebbero essere considerati zootecnici solo perché non sviluppano una certa quantità di glutine.
La nostra missione è nutrire persone e pianeta. Le persone attraverso cibo e ospitalità, lavoro e prezzo sostenibile. Mentre il pianeta stando attenti all’impatto di ciò che coltiviamo, direttamente o indirettamente.
Che cosa si può acquistare da voi?
Presso i nostri store si possono acquistare pane, pizza, caffè e dolci, cioccolato, vino e prodotti da dispensa. Tutti prodotti con una filosofia artigiana alle spalle e che mettono al centro la conoscenza della filiera produttiva.
Pensiamo, però, che sia riduttivo dire che da noi si possono acquistare solo prodotti. Da noi si possono acquistare un ambiente, una scommessa, uno stile di vita e anche delle quote sociali.
Nel 2019 abbiamo lanciato una campagna di equity crowdfunding e abbiamo permesso l’ingresso a quasi 400 soci e presto ne faremo un’altra. Quest’anno, invece, abbiamo ottenuto la certificazione internazionale Great Place To Work®.
Che cosa significa, oggi, fare il pane in Italia?
Per noi significa guidare, assieme ad altri colleghi del mondo dell’enogastronomia, il cambiamento radicale del sistema agroalimentare e del lavoro della ristorazione. Significa anche avere una maggiore dignità lavorativa, non lavorare solo esclusivamente di notte.
Oggi fare il pane è un lavoro da giovani! Siamo consapevoli che sia difficile tenere insieme tutti i pilastri della sostenibilità – quello economico, ambientale, sociale e nutrizionale – ma se manca uno di questi il concetto di sostenibilità perde di significato.
Pensi che quello del panificatore sia per i giovani una sorta di “ritorno alle origini e all’artigianalità” in un mondo sempre più frenetico e digitale?
Pensiamo che siamo talmente influenzati dalle dicotomie vecchio/nuovo, lavoro di testa/lavoro di mano, etica/estetica, che non riusciamo a vedere quanto oggi ci sia una riconciliazione della complessità e della globalità delle cose.
A noi piace definirci artigiani digitali: facciamo pane ma anche economia digitale, raccogliamo dati e condividiamo tutti i numeri con il team ad esempio. Fare il pane è un lavoro senza tempo. È un lavoro sempre contemporaneo e può essere sia rilassante che frenetico, dipende da noi.
Il modello artigiano insegna: testa e mano sono sempre collegate. Facciamo il pane con la testa e con il cuore oltre che con le mani.